lunedì 30 luglio 2012

CERCASI ROTTAMATORI DELLE PROVINCE


15 anni di tentativi federalisti in Italia hanno consegnato al paese un’identità che ormai possiamo definire regionalismo spinto, più che vero federalismo.
Non è questa la sede per affrontare una disamina dei significati e delle implicazioni di questa scelta legislativa e di architettura istituzionale, ma non c’è dubbio che il regionalismo porta con sé una logica conseguenza: la fine delle province.
Tra mille difficoltà, cercando di costruire una sofferta trasversalità politica, si è intrapreso allora un cammino che ha portato al decentramento di numerose funzioni oggi in capo alle Regioni.
Quello che oggi serve è fare un passo oltre, più coraggio nell’affrontare la questione.
Uno Stato che si organizza in termini regionali assegna alle regioni la competenza legislativa  e la programmazione sui grandi temi (sanità, trasporto pubblico, difesa del suolo…..), mentre affida la gestione dei servizi seguendo il principio della sussidiarietà. In questa logica sono certamente i Comuni, anche nella loro forma associata, i naturali destinatari dei
procedimenti stabiliti dalle leggi delle Regioni. Così sono i comuni che definiscono le politiche sociali sul territorio, che organizzano il servizio idrico, che elaborano i piani di assetto del territorio oltre a gestire le funzioni fondamentali dell’anagrafe e dello stato civile.
Quale dovrebbe essere lo spazio della provincia in questa ottica, quello di coordinare i comuni? Mi pare che i comuni, quando li si metta nelle condizioni di poterlo fare, lo sappiano fare.  E allora perché continuare questo melodramma sulla fine delle province?
Non si tratta solo della questione dei costi diretti. La riduzione dell’apparato che sta dietro un livello decisionale rappresenta di per sé un costo che solo se strettamente necessario vale la pena sostenere.
In un momento di difficoltà economica generale che impone una revisione corposa della spesa pubblica il costo degli apparati deve essere in cima alle priorità del decisore politico.
Ma è altrettanto necessario uno svecchiamento istituzionale, una riduzione dei livelli decisionali. Serve una semplificazione amministrativa che porti a poche ma chiare responsabilità (chi programma, chi gestisce, chi controlla) e metta fine al rimbalzo di pratiche e pareri dal comune alla provincia, dalla provincia alla regione e poi nuovamente dalla regione al comune. L’ordine potrebbe anche essere invertito.
Semplificare i procedimenti significa innanzitutto “accorciarne la filiera” burocratica. L’allungamento dei tempi decisionali comporta – tra l’altro – costi che non sono mai facilmente quantificabili e richiedono strutture di controllo sempre più complesse e quindi costose. Un gatto che si morde la coda insomma.
In questi giorni si sono sentite cose al limite del ridicolo come quella del rischio che le scuole non riaprano a settembre. Da vent’anni faccio l’insegnate di scuola superiore e non ho mai visto assessori o presidenti della Provincia andare ad aprire le scuole. Le scuole le aprono - fino a prova contraria - i bidelli.
Si tratta di una semplice battuta dietro la quale si nasconde però una grossa verità. Oggi l’Italia ha bisogno di questa semplificazione, ha bisogno di “rottamare” anche un po’ delle sue vetuste istituzioni, oltre che un po’ di classe dirigente.
Torno sul coraggio perché di quello ora abbiamo bisogno. E invito il Governo Monti e tutte le forze politiche che lo sostengono a non impantanarsi in soluzioni a metà, che non risolvono i problemi ma semplicemente li procrastinano a data da destinarsi. Avere coraggio oggi significa fare un passo deciso verso una scelta chiara, significa dimostrare una chiara voglia di futuro e non la solita nostalgia che diventa difesa del passato.
Intervento pubblicato venerdì 27 luglio sul Giornale di Vicenza

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